Miraggio Europa

Il mese di dicembre i bambini hanno preparato regalini, fatti con le oro mani,”Padelki” : si tratta di stoffa riempita d’ ovatta e cucita con diverse decorazioni e disegni da regalare ai genitori per la festa di Natale che qui si festeggia il 7 gennaio.

Ho contribuito con la mia inaspettata capacità di cucire aiutando i più piccoli, è stato divertente, e tutt’ora si continua a creare qualcosa di nuovo( portamonete, porta cellulari “fai da te”).

La prima settimana di gennaio è molto importante per quanto riguarda preparativi,(decorare, cucinare piatti tipici e indossare i vestiti migliori), verranno presentate delle scenette tratte dalla Bibbia e varie canzoni con tema Natalizio, tra cui una canzone italiana non molto tradizionale, ma semplice: “A Natale puoi” con tanto di trasitterazione in russo per facilitare la lettura tel testo ai bambini.

Sono poche ore al giorno, ma dare loro attenzione e un po di conforto è un sollievo.

E’ quasi una settimana che però è sopraggiunto un problema a livello nazionale, l’energia elettrica viene tolta agli utenti alternando le varie regioni del paese, con diversi orari durante la giornata.

Nella regione di Odessa dalle 10.00 alle 12.00 del mattino e il pomeriggio dalle 16.00 alle 18.00 (non so il motivo ma dove abito io la luce ritorna alle 19.00 di sera).

I centri in cui lavoro, il secondo e il terzo, chiudono prima, mancanza di energia elettrica significa niente riscaldamento per qualche ora e fine delle attività.

In ogni caso, ci si attrezza di pile, candele e fanari.

Questa situazione suppongo durerà fino al prossimo anno, per quanto riguarda la fornitura di gas non ci sono problemi e non ci saranno.

Ci sono anche continue variazioni per quanto riguarda il cambio valuta, sempre più favorevole per l’euro, sempre meno per la moneta nazionale, la grivna.

Si prospetta un aumento devastante il prossimo anno, in pochi mesi si è passati da 18(grivna) a 1E, con l’attuale (aggiornato al 15 dicembre 2014) 21(grivna) a 1 E.

L’Europa è un sogno per molti, un miraggio, un parco delle meraviglie, ma un privilegio di pochi.

Molte volte mi sono sentita dire “Ah, lei è italiana, sicuramente è molto ricca”, si se si pensa all’ enorme differenza del valore monetario allora si.

Mi ritengo fortunata più che orgogliosa di essere italiana.

Lorenza Lasagno, Odessa (Ucraina)

Lotta Europea: Più che nazionalità

Ci saranno dei cambi nel modo di vivere nell’Europa attuale? È una domanda che, da quando sono arrivato, mi faccio spesso. Al solito gli italiani vedono la Spagna come un paese in crescita, con tantissime possibilità di lavoro, dove la vita è migliore. Addirittura accade con ognuno dei paesi europei che, storicamente, ci sono considerati come le potenze del vecchio continente.

Inoltre quando si comincia a conoscere un po’ più risulta inevitabile accorgersi sulla situazione reale di ogni paese. Cioè si parla bene quando si fa dei paesi storici oppure con più successo fino a quando si comincia a parlare dei nuovi paesi o quelli che non sono potenze. In questo momento cresce la empatia per il proprio paese. Comunque, come vogliamo avere un paese risponsabile che faccia il suo lavore di prottezione del popolo se non riusciamo ad essere critici, a pensare in un modo obietivo che permetta agire in difesa dei diritti umani? L’Europa si basa su questa premessa, la unificazione dei paesi europei per la prottezione e crescita della qualità de vita dei suoi cittadini.

Ma come si riesce ad avvicinare l’Europa quando esistono dei stereotipi negativi dal primo momento sul proprio paese e poi sugli altri paesi quando si parla di loro? A volte si mettono in moto le scuse sulla difficoltà di imparare un’altra lingua, sopratutto quando sei un adolescente o un studiante che non ha ancora provato a uscire delle confine territoriali. Qui si trova un problema sul pensiero dell’unità dell’Europa, nel senso su cui si vuole avvicinarsi agli altri paesi però non si vuole che gli altri si avvicinino tanto. Non si vuole avere un tedesco “nazista”, uno spagnolo “pigro”, un ucraino “pro-russo”, un turco “islamista”… no si vuole quella contaminazione stereotipata perché significa un peggioramento del mio paese. Di solito la risposta viene basata sulla sconoscenza e mancanza dei dati che possano sopportare tale pensieri. E su cosa si basando queste idee? Mi fa stupire che siano basate su quello che hanno detto nei telegiornali o giornali, insomma nei mezzi di comunicazione.

Aiuto EuropeoSiccome abbia detto tantissimi esempi che sembrano disconnessi trovo ancora un filo di connessione tra di loro. Non si può avvicinare l’Europa e diventare una grande nazione solidaria quando in ogni paese i governi provano a controllare i mezzi di comunicazione confrontando le situazioni di difficoltà oppure quale paese si trova peggiore. L’avvicinamento si ottiene attraverso l’empatia, e questa si riuscirà solo quando smettiamo di guardare il nostro ombelico.

Dopo aver realizzato il seminario del SVE (Servizio Volontario Europeo) a Rimini sono riuscito a capire cosa significa la cittadinanza Europea, quello che al solito si sente parlare ma non tutti hanno una conoscenza o idea chiara su cosa tratta.

Si può descrivere come la connessione tra tutti i paese che formano parte dell’ Unione Europea, oppure come la libera circolazione dei cittadini europei fuori delle confine del proprio paese, oppure come un rapporto a livello politico. Anzi ci sono tanti significati che chissà nessuno è sbagliato.

Secondo me questo elenco, ancora più grande, è solo una parte del significato che merita. L’importanza del significato della cittadinanza europea si tradurre come la situazione di lottare per il benessere di qualsiasi paese, regione, città si tratte senza avere una connessione diretta con lui. Se non fosse per questa ragione non sarebbe possibile spiegare che i volontari internazionali si vadano via del proprio paese per offrire il loro aiuto agli altri che hanno gli stessi problemi. Lottare senza avere un passato col paese, con la regione, con la città, senza parlare bene la lingua, senza conoscere lo stile di vita, senza avere più vantaggi. Alla fine, significa lottare per offrire un aiuto, un tempo non perso dimenticando la vecchia idea delle confine e l’esterno.

A Firenze questa situazione viene percepita in un modo parecchio diversa, giacché è una città con un numero di turisti e stranieri grande, dove non c’è posto in cui non sia una persona di nazionalità non italiana. Questa abitudine ha facilitato l’inserimento dell’idea di cittadinanza europea, di come la gente che viene di un’altro paese, sopratutto vicino, sono più meno come quelli che ci sono in Italia.

Il mio rapporto con Firenze mi ha permesso di scoprire e imparare nuove conoscenze sulle relazioni interculturali. Ho visto come ci sono cose che si assomigliano al mio paese e la mia città, anche situazioni nelle cui mai fosse pensato che si potrebbero capitare. Non pensavo che una persona venuta dal est dell’Europa (come continente) avesse la stessa forma da pensare, gli stessi gusti o stili di vita lontani da quelli stereotipi che segnano a ogni nazionalità, oppure che a un tedesco le piacesse dello stesso modo l’abitudine di uscire per fare qualsiasi cosa che non abbia il significato “essere dentro di casa”, o come un francese può anche essere molto diverso tra un italiano e un spagnolo.

Tutto cioché ho espressato sta facilitando e permitendomi imparare a migliorare la mia capacità nel rapporto con gli altri. Insomma, influenzerà alla mia capacità di rapporto come professionista dopo questa esperienza.

Sarebbe un’ottima idea realizzare più incontri tra tutti, favorendo l’acquisto di competenze, aprendo gli occhi alle vere situazioni. Forse potrebbero essere organizzati tra i gruppi di persone che lavorano nello stesso ambito (minorenni, anziani, persone con handicap, sviluppo comunitario, ecologismo, ecc.), rafforzando questo acquisto di competenze che diventeranno strategie, abilità e strumenti a usare nel nostro aiuto presente e futuro.

David Martín. Firenze (Italia)

Space, identity, citizenship. Europe for whom?

“Il concetto di spazio è parte della nostra identità” ripete insistentemente Minem, attivista palestinese, promotore di diritti umani ed esperto in Media e politica. Non sono di certo le sue parole a sollevare un polverone nelle stanze della mia testa. E’ da molto tempo che vado interrogandomi sul senso del costruire un’identità. Questa necessità quasi atavica, tutta umana, del dover appartenere a qualcosa per potersi identificare. Sarà che io sono figlia di migranti, e la mia identità è ibrida per natura. O sarà che ad un certo punto questa identità che mi era stata disegnata addosso “tra il calabrese e il veronese” non mi sembrava più tanto mia. Così come non mi sembravano troppo mie altre cose, ad esempio il bere per socializzare, l’oratorio per fraternizzare, lo shopping “tutto al femminile” per piacere. Identificarmi attraverso contesti altrui mi è sembrato ad un certo punto troppo contraddittorio, e persino spersonalizzante. Ho quindi riempito una valigia con tutte le mie incertezze e le mie perplessità, alla ricerca di qualcosa che mi raccontasse un po’ meglio 20141119_145531chi sono io. Mi piaceva l’idea che l’Europa fosse una piattaforma cosmopolita dove potermi sentire me stessa un po’ dovunque, e così mi ci sono addentrata. Mano a mano che percorrevo la strada del vecchio continente, mi accorgevo che ogni luogo mi raccontava qualcosa di diverso della mia personalità, delle mie diverse personalità. Sull’atlante segnavo sempre più crocette, ma la strada invece di accorciarsi si stava sempre più allungando. Partita con lo sprezzo nelle tasche, ho persino imparato ad apprezzare il fatto di essere italiana, anche se per me non significava niente se non casa. Casa. Dove la mia anima viveva bene e al sicuro.

Ad un certo punto del viaggio sono arrivata in Bosnia, dove tutto il mio europeismo è morto nel giro di pochi istanti. Dov’era la solidarietà del dopoguerra? Dov’era finito quel cosmopolitismo che ci aveva salvati dall’odio fratricida? Perché abbiamo permesso che i nostri vicini di casa si scannassero a suon di falli omicidi e kalashnikov infuocati? Non lo so dove eravamo noi. Ma sono qui adesso. Sono stati scritti fiumi di parole sul conflitto in Bosnia e nel resto dei Balcani. La letteratura parla di guerra tra popoli, tra ideologie, tra religioni. Ma più vivo e più mi convinco che questo è l’unico pane che puoi dare alle persoe per farsi la guerra tra compagni di scuola. Perché, come in tutte le guerre, alla fine, nessuno sapeva più come ci era arrivato, a prendere le armi in mano sparando nel vuoto. La guerra non si spiega, si giustifica. E a noi come a loro è stata data la giustificazione della grande nazione, di un dio che non può essere che migliore. In nome di quel dio, come è possibile che si siano prese le armi? In nome di quale ideologia si può mai pensare di prendere le armi? Continuo a interrogarmi perché questo è quello che, mi spiegano, costruisce l’identità delle persone. E diceva bene Hannah Arendt quando scriveva “ricordati di appartenere”, perché senza appartenenza…chi mai potresti essere?

“Mio nonno coltiva i suoi campi esattamente con le stesse tecniche che sono descritte nella Bibbia. Capisci cosa significa? Noi siamo qui da duemila anni, non ce lo siamo inventati! Viviamo qui da sempre! Io sono nato qui, come mio padre e mio nonno e il mio bisnonno. 20141121_152448Nessun palestinese lascerà mai la sua terra perché non è nella sua natura!”. Nella sua natura. Nella sua natura? Quale natura? Forse nella sua tradizione, che decora i suoi ricordi e che gli racconta di un luogo che lui può chiamare Casa. Ma non della sua natura. Queste parole mi evocano un saggio di Kapuscinski, in cui dice che l’uomo è per natura sedentario, non nomade. Sedentario. Non nomade. Il genere umano tende a cercare il luogo sicuro dove trovare stabilità, sicurezza affetto, sopravvivenza. Questa spiegazione è in contraddizione con quella che vede gli esseri umani come “portati al nomadismo”. Errore: l’umanità si sposta solo se obbligata a farlo. Non penso che nessuno di quei morti ammazzati dall’Europa nel Mediterraneo avrebbe pensato nemmeno mezza volta di salire su quei barconi se non fosse stato per necessità. Non c’è niente di più accogliente che la tua propria casa. E’ per questo che i palestinesi non vogliono schiodarsi da qui e, a mio avviso, non a torto. E’ pur vero, ed ormai un dato di fatto che lo stato di Israele esiste, ha una forma, una struttura ed è forte di un’ideologia conservata, anch’essa da millenni: anche gli israeliani vogliono una casa. Questa per loro è La Casa, quella promessa, tanto agoniata e meritata dopo tutte le persecuzioni a cui la storia li ha costretti. Che fare quindi?

Qualche settimana fa a Gerusalemme, il centro IPCRI (Israel/ Palestine Center for Research and Information) ha tenuto una conferenza dove è stata presentata una pubblicazione: “Two states in one space” – Due stati in un unico spazio. Questo report mette in luce la necessità impellente di decifrare i termini di una futura e possibile coesistenza, anche in termini giuridici, tra stato di Israele e20141122_182611 Palestina. Viene pertanto approfondita la questione della cittadinanza. Leggendolo, mi stupisco nel vedere che si parla di European citizenship. Essa viene descritta in quanto modello di social citizenship, un modello che funziona ma solo poiché profondamente legata ad una territorialità. Sappiamo tutti infatti che la cittadinanza europea è acquisita. La conditio sine qua non è essere cittadino/a di uno degli stati membri. E’ una cittadinanza un po’ artificiale se vogliamo, ma come lo stesso concetto di cittadinanza in sè. Come possiamo infatti tradurre la nozione di cittadinanza se non in “visibilità” davanti gli occhi dello stato. Non è un caso che la letteratura femminista si batta spietatamente su questo punto, proprio perché per secoli (e tutt’oggi in molti luoghi del mondo) essere una donna non vuol dire essere cittadina. Il padre stato elargisce la sua protezione solo e fin tanto che la tua presenza sarà dichiarata come tale. E’ altresì chiaro che per essere un cittadino deve esistere uno stato. Un confine, quella maledetta linea che definisca a chi apparteniamo. Nel bene nel male, questa opportunità noi europei ce l’abbiamo avuta, su ben due livelli: mantenendo la nostra nazionalità “domestica”, e allo stesso tempo acquisendo una cittadinanza un po’ più sentimentale, europea appunto. Questo spazio binario deve aver sortito quel così detto “soft power” che l’Europa va propagando come un nauseante profumo alla vaniglia. Ha evidentemente funzionato, perché da fuori ci scrutano, studiano, e molto spesso ci apprezzano. Può darsi quindi che da un lato non siamo stati in grado di creare pace al di fuori dei nostri confini, ma qualcosa al nostro interno siamo riusciti ad aggiustarlo. Forse no. Chi lo sa. La scommessa è alta ed è ancora in gioco. Di certo per vincere bisogna lottare, e a me piace pensare che voglio lottare per un’ Europa migliore perché si possa dire Casa, per tutti.   

Clelia Calabrò, volontaria internazionale a Nes Ammim – Israel.

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